Il primo mattino è una pelle aliena, talmente trasparente da essere rivelatrice. Nel silenzio del risveglio l’inaspettato può travolgere una vita: rivelazioni improvvise e fughe provvidenziali, incidenti mortali e sesso rivelatore; ti veste di ricordi di cui difficilmente potrai disfarti, tanto sono immersi nei sussurri dell’alba.
Una tortora discreta accompagnava i suoi risvegli da diversi giorni. La importunava duettando con le cinciallegre quel mattino, quando decise che si sarebbe trasferita in una casa più piccola, molto più piccola, minuscola. Dove potesse raggiungere tutto allungando una mano, arrivare ovunque in pochi passi; annaffiare tutte le piante in cinque minuti e ritrovare a colpo sicuro gli occhiali abbandonati sui pochi mobili. E se ci fosse entrato un altro corpo oltre al suo sarebbe stato obbligato a sfiorarla.
La casa dove se ne stava distesa in quel preciso momento era quella della sua adolescenza ed era enorme. Un sogno liberty: bellezza decadente e cementine dissestate. Un profumo di magnolie premature costeggiava il lato sud e sul ginkgo spuntavano le foglie a ventaglio, le più belle del mondo. Ma lo avrebbe fatto, si sarebbe separata dalla tenerezza.
4:10, l’orologio del microonde restava una certezza. Una bussola a cui aggrapparsi in quel mare di solitudine mentre lei naufragava fra i reperti della sua vita; arguti aforismi le scivolavano accanto, arti mozzati precipitati dal cielo dopo un incidente aereo sopra un oceano: a vent’anni avevo vent’anni, la solitudine è molto sopravvalutata, la distrazione è l’inizio della fine.
Era tempo di rimettere in ordine l’armadio: avrebbe selezionato gli abiti da regalare o svendere, e quelli che invece si sarebbe portata nella nuova casa, quella che non aveva ancora iniziato a cercare.
Faceva scorrere i capi ben distesi da una parte all’altra con un colpo secco, zac e zac. Tutto clownescamente colorato, uno strillo perenne. O un urlo. Tutto disposto seguendo una gradazione cromatica: dal vantablack all’ultrabianco fatto di solfato di bario.
I neri si assottigliavano sempre più, strisce di inchiostro in netta minoranza. Un mese, due, un anno forse, senza essere indossati. Pendevano affranti, la spalle mortificate, ormai sbiaditi. L’unico nero verace era quello di un vecchio scialle di cashmere nero bitume, scivolato dalla gruccia e accasciato per terra. Andava sistemato e ripiegato per bene. Quello lo avrebbe conservato. Fece per raccoglierlo e quel grumo di buio si mosse. Lei si ritrovò al centro della stanza, tre metri più indietro. Non fu il grumo di buio a gettarcela, ma lei stessa, rinculata dal suo stesso orrore. La girandola impazzita di respiri ansimanti le impedì di alzarsi e di dare sollievo al battito cardiaco che si stava scatenando in un rave party. No, non è cosi che si comporta uno scialle. Strisciò piano verso il comodino, senza mai perdere di vista l’armadio, recuperò il cellulare, attivò la funzione torcia e la puntò sul groviglio fumoso.
«Chi c’è? Ci sei?» chiese, improvvisando un tono inquisitorio. La matassa si mosse, uno scatto robotico verso il bordo esterno, e le fece sgusciare il cellulare dalle mani, troppo sudate per simulare intimidazione. E poi, di colpo, nella verità della penombra, la riconobbe. Eccola lì, l’angoscia aracnide che ruminava nel suo stomaco, era fuoriuscita dalla sua bocca e si era sputata nel più infimo angolo del suo armadio. Un buco nero collegato alla sua leggerezza intrinseca, futura e passata.
Questa casa era una malattia e la stava contaminando. Era il sistema ad altro tiraggio di un water da crociera che l’avrebbe risucchiata e sputata nell’oceano, quello più profondo e minaccioso, popolato da mostri marini e dal nulla. Questa idea sedativa del silenzio pneumatico del fondo marino le fece riprendere fiato, le rallentò il battito e sciolse il tremore. Comincio a distinguere il nero blando dal nero cupo; si stava trasformando in un pesce, una manta molto probabilmente, e proprio quando le pareva che stesse imparando a nuotare sott’acqua senza respirare, la matassa si mosse ancora e parlò. «Miao» disse. Lo scialle scivolò a terra e due enormi occhi azzurri e luccicanti, incastonati in una virgola di pelo color nero di vite, esplosero in mille paure e la scrutarono tremanti. «E tu? Da dove arrivi?» «Miao.» Quella foglia di pelle tremula e spelacchiata barcollò in avanti e fece un balzello malfermo verso di lei. «Ma tu sei ancora da svezzare Pallotta.» «Miao.» «Sì, cambieremo casa. Questa è troppo grande. Qui si perde tutto, anche un nero perché.» Con cautela allungò due dita e iniziò a carezzarlo fra le orecchie, le vibrisse sondavano ogni movimento. «Miao.» Sollevò delicatamente Pallotta, questo sarebbe stato il suo nome, e si accorse che era femmina. Le diede da bere del latte di capra, quello sì, facile fa reperire, nel frigo bianco e vuoto. Un provvidenziale nettare impalpabile, come il primo mattino con cui si era rappacificata.