Dessert

4:00 AM. Non è il momento. Non esiste frase più foriera di rimorsi. Alle quattro del mattino c’è tutto il tempo per rimuginare sulle occasioni perdute perché non era il momento. E anche su Parigi. Alle quattro del mattino tutte le metropoli sono infettate da una tristezza che attanaglia il cuore: si sono tolte le scarpe col tacco e camminano storte, con i piedi doloranti e il trucco sbavato, si aggirano tra puzza di piscio e profumo di pane caldo. Parigi non fa differenza. A parte che si parla francese. Quelle quattro di mattina erano come tutte le altre, da fuori, ma io ci ero arrivata dopo una notte passata a ridacchiare, sorseggiare vino scadente e a fumare sigarette da operaio anni Cinquanta, e questo conferiva alla mia voce un tono teneramente rassegnato che avrebbe stanato un qualunque americano a Parigi che cercasse qualcosa di veramente francese, indolente e seccato. Peccato che io fossi italiana e il mio lato blasé aveva più i colori del sarcasmo. Quindi per me, quella mattina, non era come tutte le altre, era astrazione pura, appropriazione culturale in tempi non sospetti. E quello con cui ridacchiavo, in un locale retrò, alle quattro del mattino, lui sì che era esotico, e francese, e aveva quella voce roca e avvolgente, da scherzi sadici fra le lenzuola, che si fatica a dismettere come pleonastica semplicemente perché si è a Parigi. Aveva fumato quaranta sigarette in otto ore, e mi osservava, la paglia infilata nell’angolo della bocca, sornione. Però: otto ore Monsieur. Due volte quattro ore ad aspettare che me lo chiedesse, o quanto meno che allungasse una mano, un labbro, un dito, un gomito.  

Si bagnava le labbra e mi raccontava di quanto lo eccitassero le donne con un rapporto vita fianchi burroso, capelli mossi, voce calda, pelle di luna, strane. Praticamente io, omettendo la bocca piccola e sottile. Quindi?  

Gli ultimi camerieri incazzati —ma chi non è incazzato a Parigi?— , pattinavano fra i tavoli inviando ostili segnali di fumo, e lui disegnava nell’aria improbabili lacci che non si stringevano mai. Io ero eccitata da secoli e inseguivo quelle cordicelle invisibili sdilinquendomi in un’idea di cattura. Ricordo che quando andai in bagno pensai che sarebbe stato meglio se mi fossi portata delle mutandine di ricambio. Decisi che era tempo di dare un taglio a quella logorante umiliazione e di andarmene a dormire. Tornai al tavolo e non mi sedetti nemmeno. Presi il cappotto e gli dissi che me ne andavo a nanna. Non puoi, disse. Si che posso, dissi. No, disse. Sì, dissi. Aspetta, mi disse. Mi prese la mano e cominciò a giochicchiare con il mio dito medio —che io ero ormai più propensa a ficcargli in un occhio che in qualsiasi altro buco. Mi tirò giù a sedere. Aspetta, disse, resta. Lo seguivo con occhi disillusi mentre si avvicinava al bancone e recuperava qualcosa da mangiare dal cameriere livido, che lo accoltellò con uno sguardo torvo, simile ad un’alba autunnale padana, cupa e rassegnata. Ha fame di cibo questo qui, pensai, mica di altro. Tornò a sedere, vicino vicino. Affondò il cucchiaio in una croccantezza di qualcosa, ricoperta di giallo allegro e lo avvicinò alla mia bocca. 

«Cos’è?»  

«Assaggia.»  

«Non ho fame.»  

«Apri lo bocca.»  

«No.»

«Fai la brava bambina.» 

È per la bocca piccola, pensai, mi ci vuole ficcare dentro qualcosa. Comunque. Per testarne la portata. Aprii controvoglia: non mi andava che mi vedesse i denti, non proprio perfetti. Masticai poco convinta un agglomerato che inizialmente mi pareva carta crespa, ma poi esplose in una dolcezza violenta, tenuta a bada da un’asprezza delicata e molle. Una meringa, croccante fuori e cedevole dentro, si impastava morbosamente con una crema di mango ballerina.  

«Come si chiama?»  

«Pavlova al mango», mi disse, e mi infilò in bocca un’altra golosa porzione di esotismo francesizzato.  

«Ti piace, vero?» disse, e con un’altra dose mi catapultò in un teatro dove Josefine Backer che mi lusingava con i suoi capelli appiattiti e lucidi, e un’opulenta ostentazione di carne bella.  

«Hai la bocca sporca», mi disse. Mi si piazzò davanti, tirò fuori la lingua da logorroico compulsivo e cominciò a leccarmi le labbra. Mi ci volle un minuto buono per distinguere chiaramente che cosa stavo provando nella massa confusa di onde. Alla fine, conclusi che era estraniamento umido, sopra e sotto. Sorrisi. Immaginai che mentre mi infilava in bocca lingua, meringa, mango e danzatrici, il cameriere stessa tirando un sospiro di sollievo, visto che eravamo gli ultimi, e quando Monsieur avrebbe sfilato la mano da sotto la mia gonna, e io mi fossi curvata in avanti invece che inarcami all’indietro, avrebbe capito che eravamo pronti a levarci dalle scatole. Andiamo? chiese, e per una frazione di secondo presi seriamente in considerazione la possibilità di dirgli no, troppo tardi, hai perso il colpo, sprecato l’occasione. Sei una battuta a cui non ride più nessuno. Non mi ricordo cosa dissi invece. Ricordo che sapeva di sigaretta e mango, ed era inevitabile. Una fregatura, colta al volo, a Parigi, di primo mattino.