Daniele Bandini possedeva tutte le caratteristiche di qualcuno che ce l’avrebbe fatta, ne aveva i tratti somatici. Fronte alta, spalle larghe, chioma composta e sana, voce pacata e intelligente. Era il giorno del colloquio di lavoro alla NonSoloBot LTD e non avrebbe accettato un reticente “le faremo sapere”. Voleva una fusione immediata, un consenso manifesto, un entusiasmo dirompente che sciogliesse le lingue. Voleva vincere ogni resistenza e quindi, oltre a vestire i panni del vincente, un po’ per scelta, un po’ per magnanimità della natura che glieli aveva concessi, ne stava incarnando il temperamento, fin nel midollo dell’anima. Impersonava allegro quella convinzione –che ispira infondo una certa tenerezza–, che tutto, sempre e comunque, nella vita, non poteva che migliorare. Bastava volerlo.
Ripassava mentalmente tutte le dritte lette on line: sii puntuale, impara a memoria il nome di chi ti intervisterà, impegnati –ci raccomandiamo– a non sbagliarne la pronuncia, preparati qualche domanda finto interessata in anticipo, saluta con una stretta di mano e un sorriso. E menti. La prima impressione è quella che conta. Ti chiederanno: come va? Non rispondere va bene, né tanto meno sono nervoso. Ma: sono euforico, grazie! Ho aspettato con ansia questo colloquio, fin dal momento in cui ho visto l’annuncio e sono così entusiasta di avere questa possibilità… –sorridi, l’entusiasmo ti lascia senza parole– E lei come stai?
L’edificio non era dei più promettenti. Vecchio complesso periferico, di una periferia di una città periferica, in un quartiere da terziario anni Ottanta dove abbinamenti cromatici vomito stinto davano al tutto un tocco di avvilimento. Ma questo manto di rassegnazione adagiato sopra ad un’epoca nemmeno troppo lantana in cui tutti, ma proprio tutti, erano convinti che un giorno o l’altro sarebbero diventati ricchi, non bastò a scoraggiarlo.
L’ingegnere, stranamente provvisto di una chioma rigogliosa, lo aspettava in sala riunioni. Era seduto e strimpellava sulla testiera. La barba incolta e le occhiaie che urlavano dal loro abisso di insonnia.
«Buongiorno!» Bandini allungò la mano che rimase avvolta dal vuoto.
«Si sedia. Mi parli un po’ di lei.»
«Certo.» Sorriso, determinazione, calma. «Sono sempre stato molto–»
«Va bene. Perché vuole venire a lavorare qui?» Il capellone si accese una sigaretta, roba scandalosamente scorretta, da anni Ottanta appunto, come l’assetto urbanistico attorno.
«Certo.» Sorriso, determinazione, calma. Non accavallare le gambe, non incrociare la braccia davanti. «Sono sempre stato molto–»
«Sì certo. Domande stupide non meritano risposte intelligenti. Concordo. Come se la cava a salti?»
«Prego?»
«È bravo a saltare?»
Hai già chiesto un chiarimento, non fare altre domande. Passerai per cretino. Nessuna esitazione, fai vedere che sai gestire ogni richiesta. «Sì, certo, ho giocato in una squadra di basket, in serie B.»
«Bravo. Mi faccia vedere.»
«Ma… dove?»
«Da una sedia all’altra.» Bandini fece ampi balzi da stambecco metropolitano. «Bravo.»
«Grazie.» Bandini sorrideva orgoglioso. «Me la cavo, in effetti.»
«Si capisce, e non è solo talento, immagino sia frutto del duro lavoro.»
«Certo. Sono sempre stato molto–»
«Come è messo a salsa?»
«Prego?»
«Sa ballare?»
«Non la salsa…»
«Cosa?»
«Break dance.»
«Faccia vedere.»
«Dove…»
L’ingegnere lo accompagnò in uno spazio sufficientemente vuoto della sala.
E mentre Bandini si arrotolava sul pavimento con ancora la giacca addosso, il capellone lo filmava con lo smartphone. Bandini perse il ritmo. «È che… senza la musica…»
«Vai benissimo. Poi questo lo facciamo vedere all’amministratore delegato.»
Bandini si rialzò e sorrise. Riassestò la giacca stazzonata e fu preso da un prolungato senso di perdita. Come se l’umiliazione surreale gli avesse restituito la verità, e si sentì improvvisamente libero.
«Allora? Che ne pensa? Siamo pronti?» chiese l’ingegnere.
«Penso che: le faccio sapere.»