Sono nata in un mulinello di sogni e di rivoluzione,
sono nata nonostante tutto e sono scomparsa dentro la primavera con un cognome in prestito.
Sono nata con la furia della solitudine e del piacere
e quando ho capito che mi avrebbe corrosa, ho preso fuoco, e abbracciato il più cieco dei cani.
Ho imparato a credere solo nella pioggia e rubato chiodi arrugginiti nel capanno dei vicini,
perché costruivo case per le bambole a sei anni,
per stenderle nel sonno, sotto lenzuola di nuvole scopiazzate.
Ho fatto l’amore solo per amore e ho seppellito il mio cuore macellato, ancora e ancora.
Ho leccato le foglie attorno ai templi, e l’ho dimenticato.
Ho imparato a fingere di non sanguinare per il dispiegamento della concretezza
—fin nelle pieghe del mistero.
Affondavo, avvezza, perché non c’è tempo per la perfezione e non la si mangia infine.
Ho perso tutto mentre arginavo la fame che strabordava dalla retta via,
perché sono nata ammirando l’abisso che porta al centro del respiro e l’ho inseguito,
—lasciandomi alle spalle stilettate.
E ho ritrovato ogni cosa perché il corpo ha detto la sua, e io l’ho seguito muta, dentro al suo silenzio,
zitta e in lacrime, perché ha avuto pietà di una testa folle.
Ho mangiato pietre e ho smesso di fumare perché più di ogni gemito d’orgasmi volevo essere libera.
Volevo svaporare e abitare di nuovo nella pioggia, la mia.
E oggi,
oggi sono in punta di piedi, nascosta dietro ad una porta,
ad agguantare parole sante e schegge di musica che mulinellano nella bocca,
sono stesa in un letto di risate che non si aspetta più niente se non disgregazione.
E danza, nelle nebbie dei sogni che portano ad oriente,
dove ogni giorno il mattino nuovo sbuca —indifferente.