Tutto era iniziato con una stonatura impercettibile. Uno di quegli episodi che tendiamo a derubricare subito come irrilevanti, ma che si insinuano, subdoli, dentro le pieghe del dubbio. Le sue notti si attorcigliavano attorno a quel dettaglio e trasformavano quell’aneddoto in un tarlo sempre più contaminante, giorno dopo giorno, una goccia di veleno che ammorbava ogni gesto; tutto era diventato un eco di quello strappo che si allargava sempre di più. Da quando lei aveva finito da sola la serie che avevano iniziato insieme, lui aveva preso ad osservarla in modo diverso. Notava dettagli che prima passavano sotto silenzio. Come quando ogni volta che lui scendeva per le scale lei prendeva l’ascensore; o quando non rispondeva ai messaggi della buonanotte se dormivano lontani per lavoro, e poi il mattino dopo gli spiegava con noncuranza che era crollata dal sonno. Oppure: quando appoggiava il cellulare sempre con lo schermo rivolto verso il basso.
Chi si era infilato a tradimento nella loro magia? Quale sortilegio aveva smantellato lo spirito di sacrificio che li piegava senza sforzo a sopportarsi a vicenda?
Per raddrizzare il suo sogno d’amore ormai capovolto doveva avere accesso al cellulare di lei, e girarlo all’insù quell’ostile portale verso una nuova donna che gli voltava le spalle e lo tagliava fuori. Chiederle brutalmente di sbirciare sarebbe stato come ficcare un piccone in quella minuscola crepa e allargarla con la sfiducia. Rovistare di nascosto tra le sue cose sarebbe stato umiliante. Fingere di non volerlo fare logorante. Accampare una scusa pragmatica era l’opzione più dignitosa.
«Se uno di noi due dovesse morire», le disse, «sarebbe un problema recuperare dal cellulare password e tutto il resto. Cose ne dici se condividessimo i nostri PIN? A titolo precauzionale.»
«Se dovessi morire prima di te puoi tenertelo il mio cellulare» rispose lei. «Riportarlo alle impostazioni di fabbrica e rivenderlo. Non ci conservo niente che valga la pena di ricordare.»