Albagia

Non vado impreparata. Studio sempre prima di affrontare una prova importante. Mi sono documentata anche sul sesso anale, nel caso mi chieda di farlo. Non mi sembra particolarmente complicato. C’è una influencer che ne fa un gran parlare, e lo decanta, bla bla bla, un video su tre; dice che è il vertice dell’appagamento. Dice che c’è un mondo di lubrificanti, l’imbarazzo della scelta. Alcuni contengono anche agenti intorpidenti per alleviare il disagio, ma lei li sconsiglia; la mancanza di sensibilità rende più probabile un danno accidentale, dice. Pare anche che ci sia in giro una marea di uomini a cui piace il pegging, che praticamente significa farsi inchiappettare da una donna con un fallo feticcio. E una sessuologa ha scritto: attenzione, è una fantasia maschile. Ma va’? Avanguardia pura. Mi pare che lo scambio di favori, consenziente, consista nel soddisfarle le fantasie, anche se non sono le tue. Comunque, non mi va d’infilare niente nel buco del culo di nessuno, non ancora almeno. Mi può andare bene che lui lo metta nel mio di buco —il suo cazzo vero, non un feticcio—, ma l’importante è che ci vada piano, non voglio che mi faccia troppo male. Un po’ sono disposta a sopportarlo, un po’ di dolore intendo, certo; come quando mi infilavo le punte sulle vesciche sanguinanti, o mi toglievo le croste appena formate. Un minimo non mi dispiace, anzi, mi piace anche. 

Mi sembra carino e gentile comunque. È sempre stato rispettoso, anche dei miei tempi. Sa che la mattina sono a lezione e non mi ha mai chiamata. Ha sempre aspettato che finissi. Non è mai stato insistente. Mi ha chiesto milioni di volte se ero sicura, se volevo farlo e bla bla bla. E quando gli ho detto che avevo già fatto le mie esperienze, mi ha chiesto se avessi preso delle precauzioni. Mi sembri mio padre, gli ho detto. C’è rimasto male. E non si è fatto sentire per giorni. Poi è ricomparso. Vorrei portarti al cinema, mi fa. A vedere cosa, scusa? Non credo che ci piacciano gli stessi film —qui ho sbagliato—, voglio dire, insomma, sei più vecchio di me —ma no, ma cosa dico?—, e poi, magari ci vedono. Ti porto in un’altra città, così dormiamo fuori, mi dice. Bello deciso, ho pensato. Va bene, gli ho detto. 

Avviso Cate e lei si incazza. Le vengono le scalmane, ma si trattiene perché siamo sui gradini della scuola —e siamo ancora fuori, sì, perché lei fuma come una ciminiera. Ma ti rendi conto che potresti metterti nelle mani di uno psicopatico? mi dice. Ma no, le dico, questo sito di Sugar Daddy è serio. C’è gente a posto. Siamo tutti registrati con una certificazione. Nessuno rischia niente. Eh, see, mi fa, perché lui rischia proprio con te. Che ne sa? preciso. Non mi conosce neanche lui. E comunque, continuo, è uno scambio, non è che ci devo fare sesso per forza. È molto chiaro, anche sul sito. Sono uomini d’affari che vogliono una cosa carina, per rilassarsi. Cate mi fa delle facce che anche senza dire niente si capisce tutto. Senti, le dico mentre saliamo, se va bene mi faccio mantenere, e magari ogni tanto gli faccio un pompino. Non è come essere una puttana. Sei più una cortigiana. E mentre attraversiamo il chiostro gliela meno con la storia di quella cortigiana veneziana del Cinquecento, una cortigiana onesta, una donna colta, un’artista, un rapporto con i suoi benefattori che andava oltre a quello sessuale. Ti ricordo, dice lei, che le cortigiane sono stata anche accusate di stregoneria e processate dall’Inquisizione. E sta storia dei Sugar Daddy, a me fa tanto prostituzione 2.0. No, in questo caso è diverso, insisto. Non è prostituzione. Hai una relazione con uno, continuativa; ti dedichi solo a lui insomma. Lui ci mette i soldi e tu gli dai intelligenza, educazione, e discrezione. E figa, puntualizza.

Cate non capisce. Giulia capiva. Giulia sapeva tutto. Sapeva che mi ero iscritta a quel sito. Mi aveva aiutato lei a impostare il profilo. Mi aveva fatto le foto con la sua macchina fotografica; una roba enorme, con un obiettivo assurdo. Che ghignate ci siamo fatte con i primi che si sono presentati! Ma è carino almeno, mi chiede Cate. Mi pare di sì, gli dico. C’è una foto sola, di profilo. Sembra gentile. Ha una camicia bianca e i capelli mori, ricci. Ci siamo messaggiati nella chat e poi parlati al telefono, un sacco di volte. E gli hai raccontato di te? Beh, sì, qualcosa. Tu sei tutta scema, mi dice. Ma no, non è uno fastidioso. Anzi, è premuroso… mi ha chiesto se posso evitare di accettare richieste di negoziazione da altri mentre ne parlavo con lui, ma ci sta, non è una roba maniaco ossessiva. Mi piace perché mi ascolta. E sa parlare, e scrivere anche: metti gli accenti giusti, quello acuto su perché, ad esempio, e scrive po’ con l’apostrofo. Sono dei segnali, le dico. Sì, un grammar nazi ti sei trovata, mi fa. E poi è stato lui a farmi la proposta economica per primo, dico. Sul sito c’è scritto che è un buon segno, che vuol dire che ci tiene, che capisce il mio valore. E ci credo che lo capisca, dice Cate —fa l’ironica. Mi ha chiesto l’esclusività; mi vuole pagare dei vantaggi, tipo regali, ma anche gli studi mi ha detto, e darmi un fisso di 3.000 euro al mese, per potermi chiamare, per parlare, e poi ogni volta che ci vediamo altri 3.000… Mi ha già fatto un bonifico di 6.000 euro. Ah, premuroso sì, ti ha già anticipato i 3.000 per la scopata, perché immagino che vedersi, domani sera, non significhi leggergli i sonetti del Petrarca. Eh no, dico. Suona la prima ora e cerco di tirare fuori il suo cazzo dai miei pensieri. Questo è un honey daddy, dico. E quanti anni ha? mi chiede. Cinquantuno. Tu.Sei.Tutta.Scema. Questa è Caterina, la mia migliore amica. Quella che mi è rimasta dopo che Giulia se n’è andata. Ma Giulia era più di un’amica, era la mia metà. Quello che avrei voluto essere. Era stata una fortuna ritrovarsela in classe; una che aveva studiato a Londra, a Parigi, che aveva visto il mondo. Ed era me che voleva come amica. Ancora un anno e sarebbe tornata a Londra, e magari, mi dicevo, sarei potuta andare a trovarla. Stare da lei. E invece, fine. Cate è una versione espansa di Giulia. Sembrano quasi sorelle in effetti; more, caschetto corto, occhi chiari, belli, ciglia lunghe, ma con 10 chili di differenza. L’aliena sono io. Quella che tutti guardano, ma nessuno tocca. È che sei respingete, mi diceva Cate quando abbiamo iniziato a frequentarci. Sei troppo bella. E te le tiri. E sembri antipatica. Anch’io all’inizio credevo che fossi stronza, ma non lo sei. Quindi? Quindi non lo so. Ma non è che me la tiro, che ho troppe pretese, come dice lei. È che a me piace ragionare; anche con i ragazzi, mi va che sappiano parlare, un minimo di eloquio evoluto. Ce ne sono eh, solo che non mi attirano, voglio dire, un po’ di attrazione fisica ci deve essere. Cate dice che sono altezzosa. Adesso mi chiama Miss Albagia. Ha appena scoperto questo sinonimo di superbia in un libro —le piacciono i termini obsoleti— e me l’ha subito appioppato. Pecchi di albagia, rilassati, mi dice, ma io non posso rilassarmi. Io non ho mamma giudice e papà avvocato. Sono due mesi che evito la segretaria della scuola perché mamma non è ancora riuscita a versare la tassa d’iscrizione di 250 euro. Ma adesso me la pago io, da sola, mi invento che me li ha prestati Cate —e mi restano 5.750 euro. Cate lo sa dei miei problemi di soldi, ma non fa quella che compatisce. Mi compra qualche libro, mi paga la pizza. Ma non ha mai fatto la smelensa, anche quando è morto papà, non è che è stata lì a menarmela. Era già pesante di suo. Con la macchina distrutta, l’assicurazione che non pagava e mia madre chiusa in camera tutto il giorno. Insomma, è morto, che ci vogliamo fare? Avevo già pianto tutte le mie lacrime, non mi servivano altre pacche sulla spalla. Ma allora era diverso… c’era anche Giulia allora. Altrimenti non so come avrei fatto. Lei c’è stata per me. E quando è venuta al funerale, io mi sono sentita una merda per quei 50 euro che le avevo preso dal portafoglio. E poi l’avevo anche spalleggiata, quando era andata a lamentarsi con la direttrice della scuola che le avevano rubato i soldi nello spogliatoio. E lei è venuta al funerale di papà. E io non sono nemmeno potuta andare al suo.

Cate, le dico, ti do il suo numero. Se non mi senti, lo chiami e gli dici che gli fai il culo. Rido. Lei non tanto. Se me lo dicevi prima era meglio, dice. Forse sì, forse dovrei preoccuparmi, mi dico. E forse mi vergogno, anche con lei, per questo non gliel’ho detto prima. Ma l’unica cosa a cui riesco a pensare adesso è che spero non mi chieda di fare roba strana, perché mi verrebbe da ridere, mica per altro. Ma no, mi sembra gentile. Mi sembra uno normale. Quando mi chiama dice sempre: piccola, ti disturbo? Se ti disturbo richiamo più tardi. Mi chiede anche se ho fatto i compiti. Ti chiamo quando hai finito, mi dice. Ha una bella voce. Tipo, calma. Ha detto che l’hanno colpito le mie foto, quelle fatte da Giulia, con il vestito bianco a pois neri, e con le spalle scoperte. Mi hai detto: sono spontanee —è che avevo un po’ bevuto, per essere più rilassata. E poi mi fa: sei bella. Grazie al cazzo, volevo dirgli, lo so. Tieni sempre i capelli così, raccolti? mi ha chiesto, con quello chignon tutto scombinato sulla testa. Tutti quei bei capelli biondi. Perché? gli ho detto, ti piacerebbe di più se li tenessi sciolti? No, no, ha detto lui, mi piacciono così, molto. E poi ha detto, hai un bel collo. Ti fa eccitare? gli ho chiesto. No, mi ha risposto, e sembrava triste. Ti sei offeso? No, non sono offeso. Perché ti ho chiesto se ti sei eccitato —ho sbagliato, nel sito sconsigliavano di parlare di sesso al telefono. No, non sono offeso. Comunque… adesso ti lascio, l’altra volta mi dicevi che a quest’ora vai a danza. Non ci vado più. Perché? Mhmm… Costa troppo. Posso pagarti io le lezioni se vuoi, mi fa. Come facevo a dirgli che gli avevo raccontato una balla la volta prima? Che era da quattro mesi che avevo smesso, che dopo la morte di Giulia avevo mollato perché mi ero rotta. Cosa ci andavo a fare? Senza di lei… Inoltre, se potevamo risparmiare, era anche meglio. Ma… non lo so… vediamo, ho detto, ho tanto da studiare anche. Lo so, ha detto lui. Il classico non è una passeggiata. In che sezione sei? mi ha chiesto. Cosa gliene fregava di sapere in che sezione ero. Perché me lo chiedi? L’ho fatto anche io quel liceo. Ah… sei di qui? Sì, ma non ci vivo più, da anni ormai. Sono in C, gli ho detto. Sei in C quindi. Si, sono in C. Perché? Silenzio. E mi fa: anch’io ero in C. Vabbè, gli ho detto, ma quanti anni fa? Mica abbiamo avuto gli stessi insegnanti. Battuta cretina, devo ammetterlo. E come va a scuola? —meno male, non si è offeso. Ma… bene direi. Il primo trimestre avevo ancora la media del nove. Perché avevi? Non hai più la media del nove? Beh, no, non ce l’ho più… ho avuto un calo. Perché? Ma che cazzo, mi sono detta, ma cosa gliene frega. Beh… ho avuto due lutti… è stato un anno un po’… così. Ah… mi dispiace, ha detto, e… Una mia amica, leucemia fulminante. E sai, non sono neanche potuta andare al funerale. La madre è francese, e boh, non lo so, l’hanno portata in Francia. Mi dispiace, ha detto. E l’altro? Cosa? L’altro lutto. Non mi andava, non mi andava di parlare di papà. Mia nonna, ho detto. Le volevo molto bene, era vecchia, e malata, ce lo aspettavamo certo, ma comunque… io le volevo molto bene. Lui era un po’, sai come dice la canzone, il mio centro di gravità permanente… fuori… in effetti. È che… lo capisci solo dopo, voglio dire, che sei da solo e ti tocca cercare per conto tuo… non ho neanche fatto in tempo a… è uscito e non l’ho neanche salutato. E adesso mi sembra che potrei perdermi, come una musica mai finita, o uno schizzo di tempera nell’acqua. Mi dissolvo ecco, svaporo, in certi momenti. Silenzio. Mi dispiace, ha detto. Ma sto meglio, sto benone. Silenzio. E tu cosa fai? gli ho chiesto. Lavoro. Immagino, ho detto. Lavoro molto. Come tutti, ho risposto. Volevo dirgli:” capirai che informazione che mi hai dato,” ma stavo provando a non fare l’antipatica, o la ficcanaso —sul sito lo sconsigliavano. Sei saggia, mi ha detto, per essere una che ha appena compiuto diciotto anni. Silenzio. Sono troppo grande vero? Per te. Se l’età fosse un problema non mi sarei iscritta a quel sito. Silenzio. Sì. Certo, hai ragione, ha ammesso. Silenzio. Che film ti piacerebbe vedere? mi ha chiesto. Fai tu. Basta che non sia una cosa stupida, commerciale tipo. E mentre parlavo mi stavo scorticando il pollice. Ma dai! ho esclamato. Che c’è? Ho macchiato di sangue il lenzuolo. Mi sono tirata troppo le pellicine. Devi usare uno smalto amaro così—Lo so, gli ho detto un po’ seccata, ma non funziona con me. A me piacciono le cose cattive. Me lo succhio l’amaro. 

Arriva il giorno. Vado da Cate e facciamo finta che dormo da lei. Mi metto qualcosa di simpatico, un po’ sexy va bene, ma tranquillo. Non mi piacciono gli abiti troppi scontati, nel senso, quelli che dicono troppo: ti voglio piacere. Mi metto quel vestito che avevo preso con papà. Quello giallo, con i girasoli; arriva sotto al ginocchio, ma sopra è un po’ una sorpresa perché si allaccia con dei nastri e lascia la schiena scoperta. Mi metto la giacca nera, così non lo vede subito che ho la schiena nuda. E poi magari c’è freddo. Mica so dove mi porta. Dopo il cinema. Dice che passa a prendermi davanti all’entrata dei giardini. E sono qui, puntuale, e guardo la strada. Arriverà in macchina, e mi farà salire come una puttana vedrai. Vabbè che la strada è a senso unico, ma di gente ne passa qui. Chissà che macchina ha uno così. Sicuramente non come quella di papà, che si è accartocciata. Oddio, e se davanti è brutto da far schifo? Va bene. Sei preparata. Sei stata con Camillo che non se lo sarebbe scopato neanche un palo. Camillo il latinista. Sì, ma lui era innamorato, e se gli dicevo no, stava fermo immobile e mi guardava come un koala. Questo se gli dico no, cosa fa? Forse è meglio che me ne vada… E se mi mette il GHB? Ma no, mi sembra carino. Il GHB me lo metteva se non ci stavo, io ci sto. Sono una troia? Ciao. Ed eccolo lì, dietro di me, all’entrata del parco. Eccolo lì. Giacca e cravatta. Non grasso, non brutto. Ciao, dice. Scusa se ti ho fatto aspettare. Mi è po’ difficile questi giorni staccare quando vorrei. Immagino, dico. Non ho aspettato comunque. Sei in orario. Bene, dice. Mi guarda. Gli occhiali da sole ancora addosso. Mi guarda e sta fermo. Gira la testa di lato e controlla che nessuno ci abbia visti. Vieni, dice, andiamo alla macchina. Mi precede ed entra nel giardino. Camminiamo fra le siepi perfettamente potate; le panchine sono quasi tutte vuote; viene poca gente in questo splendore del Cinquecento. Mai capito perché. Sta a distanza. Lo seguo. Hai freddo? mi chiede. No, perché? Beh, la giacca, mi dice. Anche tu, gli dico. Ride. Hai ragione, e se la toglie. Fa caldo per essere fine maggio, dice. Eh già. Già, già. In ufficio sparano l’aria condizionata al massimo e quando esco mi ci vuole un po’ prima di sentire il caldo. Sono ancora tutto carico di fresco. Io non ce l’ho l’aria condizionata a casa, dico. Bella camicia, penso. Tutta stirata. Bel tessuto. Fanno sempre la spalla bella ste camicie costose. Si slaccia la cravatta. Ti sembrerò un vecchio… con tutta questa roba addosso. No, mi sembri uno di cinquantun anni che lavora in un ufficio con l’aria condizionata. Sorride. Ma tua madre… ti lascia dormire fuori, così. Ho 18 anni. Si vabbè, dice, non significa che tu possa andare in giro come vuoi senza dire dove vai. Ti va di uscire con me, gli dico, o vuoi chiamare mia mamma per assicurarti che sappia con chi sono? Ecchecazzo, penso. Scusa… dice. Hai ragione. Sono l’ultima persona che—Allora, cosa mi porti a vedere? Ascolta… avrei cambiato programma. Questo non mi piace, penso. In che senso? chiedo. Si ferma e si toglie gli occhiali. Occhi belli. Non laido. Non va bene. Preferivo uno da controllare. Senti, gli dico, forse è meglio essere chiari fin da subito: a me non va di fare cose strane. Non mi vanno cose bizzarre, tipo anche con altri, voglio dire, mi va bene con te, come ci eravamo detti, e poi tu mi dici cosa vuoi e siamo solo io e te. Sorride. Mi guarda i capelli e cerca una traccia di qualcosa; allunga una mano e mi tocca un ciuffo che scende. Lo infila dietro l’orecchio, e io gli sposto la mano e gli dico: scusa, mi dici per favore cosa— Vorrei andare a cena e basta, se ti va. Mi andava sì. Avevo una fame. 

Guida, è da mezz’ora che guida e si fa sera. Mi chiede coma va la scuola. Ti prego, gli dico. Scusa, mi fa. La butto lì, tanto per superare l’imbarazzo: mettiamo su un po’ di musica? Va bene. Questo mi piace, dico, e alzo il volume. Me lo ricordo, penso. È un pezzo sui cui ballavo sempre con Giulia. Mi sembra impossibile che non ci sia più. La mattina, appena sveglia, cerco ancora i suoi messaggi del buongiorno sul telefono; mi alzo, e mi aspetto che papà esca dal bagno e mi dica: “Vengo a prenderti dopo lezione o torni con Giulia?” Lui guida. Parla poco. Ogni tanto mi guarda e sorride. Ha delle belle mani, sono curate. Le tiene ben ferme sul volante. Si gratta sotto al mento. Ha un cerottino, copre un taglio fresco. Si è fatto la barba. Per me? Ha un buon profumo almeno, sembra quello di… come si chiama quello stilista che fa che anche il regista? Vabbè, non mi ricordo. Com’è che sugli uomini più grandi lo stesso profumo che si mette anche uno giovane suona diverso. Sarà una roba ormonale. Merda… io non me lo sono neanche messo il profumo… Si toglie l’orologio e lo appoggia sul cruscotto. Bello dico, e lo prendo in mano. È l’ultimo modello, commento, con il cinturino di pelle; è proprio bello. Questo costa più di 1.000 euro, penso. Lo so perché l’ho letto sul sito. Ne vuoi uno? mi chiede. Me ne regaleresti uno… davvero? Sì, certo. Grazie! esclamo. Cominciamo bene, penso. Si mette molto, molto bene. La prossima volta, dice… se vuoi che ci vediamo ancora intendo, te ne porto uno. Certo che voglio che ci vediamo ancora. Sorride. Ma posso averlo con il cinturino che mi piace? chiedo. Mi mandi un messaggio con il modello che ti piace e te lo prendo come vuoi. Grazie! E non so perché, mi è venuto da allungarmi e mollargli un bacio. Sulla guancia. La stessa inclinazione, lo stesso tocco, forse quasi lo stesso calore, come con papà, ma tutto confuso nel suo profumo da stilista regista. 

Che c’è? Perché sei triste adesso? mi chiede. Non sono triste. Stavo pensando che la settimana prossima ho due compiti in classe e non ho studiato. E siamo a fine anno. E non riesci a recuperare nei prossimi giorni? Me lo chiede come se fosse veramente interessato. Non lo so, ci provo. È che… Cosa? Mi sembra tutto inutile. Mi tolgo la giacca. Fa caldo, dico. Mi guarda, lo vedo che mi guarda la schiena nuda. Se sarà gentile, penso, se sarà carino, potrei continuare, e oltre all’università, farmi pagare anche un appartamento. Magari a Milano. Se sarà sopportabile, potrebbe anche piacermi. Ma meglio di no. Meglio che lui pensi che mi fa anche un po’ schifo. Meglio farglielo pesare che potrei essere sua figlia. 

Mi ha portato lontano. Siamo a un’ora e mezza di macchina. È la figata del Veneto: ti sposti di un’ora e mezza e sei in un altro mondo, in un’altra città, dove nessuno ti conosce, e con un sacco di cose carine. Ma anche nel resto d’Italia, in effetti. Siamo una nazione di lussuriosi luoghi appartati. Entriamo nel parco del ristorante. È una villa tipo Cinque Seicento; un giardino enorme, fontane che scrosciano, una vista sulla vallata che mi mette ansia. Il mio splendido vestito giallo, mi sembra un prendisole qui. Forse, dico… non ho il vestito giusto… qua mi sembra tutto molto… Sei bellissima, mi dice lui. I miei sandalini da 19,99 euro si infilano traballanti nella ghiaia e lui mi appoggia una mano sulla schiena, per sostenermi. Ecco, comincia a prendere confidenza. Tocca. Lascia lì la mano, una piccola carezza; è gentile, sì, è carino. Mangiamo all’aperto. Non ho molta fame. E lui mi fa mille domande, e ascolta. Non riesco neanche a finirlo il primo, e lui mi chiede se mi piace ancora danzare; più recitare adesso, gli dico. Ha gli occhi stanchi. Gli racconto di quando ho fatto il primo spettacolo a scuola, e io e Giulia —era ancora viva e sana allora— interpretavamo le protagoniste. Era il Sogno di Shakespeare. E gli confesso che mi era tanto piaciuto perché mi sembrava di essere diversa dagli altri. Oddio… non è che parlo troppo, mi dico, e poi pensa: albagia. Questi cercano la ragazza che sa conversare, sì, ma se poi è troppo? Stai giù, non ti vantare. Non è sexy. Fai vedere che sei discreta. Che ragioni, ma sai tenere la bocca chiusa. Non vorrei sembrarti presuntuosa, gli dico. Non mi sembri presuntuosa. Continua, dice, mi piace ascoltarti. È che… insomma, credo di avere una marcia in più. Ma non so se voglio recitare da grande. Mi sembra un po’ un mondo dove devi fare un sacco di compromessi, e alla fine non è che il talento conti davvero. Non qui comunque. Magari all’estero. Sembra che un po’ tutto conti solo all’esterno. Già, annuisce lui. E che, ancora non lo so cosa voglio studiare dopo. Magari lingue… Ma no, penso, ho detto la facoltà che vuole farmi fare mia madre, non ci credo. L’ho sempre odiata lingue, mi fa vomitare solo a pensarci. Ma come faccio a dirgli la verità? Che non so niente di quello che voglio. Che tutti i miei amici lo sanno quello che vogliono, e che io invece alleggio, sulle direzioni degli altri; che sono persa, terrorizzata dall’idea di rimanere dove sono, che l’impotenza mi attanaglia lo stomaco e mi butta in un angolo. Che c’è? mi chiede. Perché sei triste adesso? Lui è gentile, è calmo, non sta lì a giudicare, mi sa che posso dirglielo. È che… non lo so quello che voglio. Sei giovane, hai tempo, mi dice. —No. Non c’è più tempo, penso. Tutti gli altri lo sanno.— E comunque, dice, non c’è niente che andrà come te lo immagini. Ne per te, né per quelli che adesso credi sappiano tutto del loro futuro. Questo mi da un certo sollievo, mi dico. E come fa a sapere che ho pensato agli altri che sanno tutto? Sì, è gentile in effetti. Carino. Vorrei che fosse lui a parlare, ma fa parlare solo me, e mi ascolta. Mi guarda i capelli e mi ascolta. E sorride. Siamo al dolce, che non riesco a finire, e sbadiglio. Ho bevuto un po’, ma non sono ubriaca, nossignore, no. Sono solo un po’ stanca. Mi guarda e sorride. Mi carezza la guancia. Vieni, mi dice, andiamo a nanna. Ok. Va bene, sono pronta, penso. Va bene, è gentile: dice nanna. Ci alziamo e mi prende per mano. Mi rimetto la giacca, fa un po’ freddo. Ma dove andiamo? chiedo. Il ristorante ha anche delle stanze, ti porto lì, mi dice, e mi guida verso il parco interno. Le lampade sono accese e mi sembra tutto troppo premonitore, una bellezza da svolta improvvisa. Roba da film. Ma lui è calmo, normale. Non è stato facile per te, quest’anno, dice. Due lutti… Eh sì, mia nonna e un’amica. Un familiare e la tua migliore amica, dice. Sì, una vera amica. C’è anche Caterina, ma Giulia… Giulia era un’altra cosa. Ci capivamo al volo. Come faccio a spiegarti? Sai quando con una persona non hai bisogno di dire niente e ridi delle stesse cose, tipo le stesse battute? Pensa che avevamo un diario insieme, e io scrivevo delle cose e lei mi rispondeva. Niente sul telefono, tutto scritto a mano. E ce l’hai ancora? Cosa? Il diario. No. È rimasto a lei, e poi, con tutto il casino, hanno fatto i funerali su in Francia, e io non potevo andare dai suoi… non li ho mai conosciuti. Cioè, so dove abita, ma loro non c’erano mai. Insomma, come faccio ad andare là e dire: “Scusate, vostra figlia aveva un diario che era anche mio, dovreste ridarmelo.” Dovresti provare, dice. Magari, un giorno. Adesso no. Adesso se vedo casa sua mi sciolgo, nel senso che potrei proprio spezzarmi per il dolore… non so se riesci a capire. Credo di sì, dice. 

Arriviamo alla porta, apre, entriamo. Oddio che camera! C’è un divano anche, e due poltrone, di velluto azzurro. Profuma tutto di rosa qua dentro, e fa fresco, c’è l’aria condizionata. Oddio che belle le finestre che danno sul giardino! Mi piace, è proprio un’aria tipo Cinque Seicento. E il letto… è bello grande. Questa stanza è enorme, dico. Sì, dice lui. Ti piace? Molto. Mi tolgo la giacca e la butto sul letto. Tutto questo incanto mi ha fatto salire una vampata di calore. Posso aprire le finestre? chiedo. Sì. E puoi prendere tutto quello che vuoi dal frigo bar, dice. Appoggia le chiavi sul comodino e mi bacia sulla fronte. Vengo a recuperarti domani mattina verso le dieci, va bene? Lo guardo stranita, e forse anche un po’ incazzata. In che senso? Non resti qui? No. Dice lui. Dice no. Buonanotte. Mi bacia ancora sulla fronte e se ne va. Boh. Allora è vero che sono respingente. O è per il profumo? Dovevo mettermelo. Adesso è proprio uno di quei momenti in cui lo vorrei con me quel diario. Andrei avanti con la storia dell’iscrizione al sito e ci scriverei che l’ho anche trovato il mio paparino di zucchero, ma che non riesco a far arrapare neanche uno di cinquantun anni. Ma sì, chissenefrega; fosse così ogni volta, grasso che cola. Mi butto sul letto vestita, controllo il prezzo della camera sul sito —345 euro a notte— e dormo, dormo come non avevo dormito da mesi. Forse da un anno. 

La volta dopo arriva con l’orologio; sono troppo felice per ricordare che ci ero rimasta un po’ male che era andato via. Bella un corno. Dovevo stare zitta, parlo troppo. E tutti mi evitano. Anche Cate raccatta molto più di me. Quindi? Cosa sono io esattamente? Mi rimiro il polso con il mio nuovo orologio —489 euro, non ho sbragato—, e ci giochicchio per impostare le app e abbinarle al telefono. Finita l’euforia digitale rimango in silenzio. Che c’è, mi chiede, perché sei triste adesso? E no, penso. Come l’altra volta; adesso mi fai parlare, parlare, parlare, e io mi stordisco e mi deconcentro. Parla un po’ tu adesso. Ma tu, gli chiedo, che lavoro fai? Finanza. Ma, tipo? Maneggio i soldi. E ti piace? Una volta. E perché continui? Perché mi fa guadagnare un sacco di soldi. E sei bravo? Parecchio, dice. Non glielo chiedo, è chiaro che è sposato. È chiaro che ha dei figli. Non glielo chiedo. E poi non mi interessa. E quante macchine hai? dico. Quattro. E le usi tutte? Qualche volta. Ne vuoi una? mi chiede. Non so, rispondo… Non so guidare. Vuoi prendere la patente? Beh, dovrei. Ti pago la scuola se vuoi. Va bene, dico, grazie. Si mette bene, penso, si mette molto bene. Se la prossima volta gli chiedo un appartamento questo è capace che me lo compra. Devo solo farmelo piacere. Ma mi sembra gentile, è carino. Ha delle belle mani. E anche gli occhi. Mi guarda e sorride. Se potessi raccontarlo a Giulia, sarebbe tutto meno… da grandi.

Ceniamo e mi fa domande su domande; mi fa parlare, sempre, e ascolta; e gli racconto di quando insieme a Giulia e Cate ci siamo prese una sbronza a casa di Giulia. I suoi non c’erano e ci siamo bevuti un liquore schifoso che sapeva di anice, e Giulia ha vomitato su un tappeto da 20.000 euro —era così smembrata che ha anche provato a baciarmi, ma questo a lui non lo dico—, e piangeva e rideva insieme, e diceva “mi fanno un mazzo tanto”, e rideva ancora, e anche noi ridevano. Ma Giulia mica la sgridavano in realtà, penso. Lei era felice con sua mamma. Era come un’amica per lei. Magari l’avessi avuta io una mamma così, una che ti capisce, che non ti stressa con mille paure. Voleva presentarmela, ma non abbiamo fatto in tempo. E quindi? mi fa, cose avete fatto con il tappeto? E beh, c’era poco da fare, l’abbiamo aiutata a pulire. E ride. E mentre ride è meno vecchio. Dice: sembra che quella delle sbronze a casa di qualche amico quando non ci sono i genitori sia un rito di passaggio. L’ho vissuto anche io, e racconta qualcosa di sé, senza che glielo abbia chiesto. Quando aveva diciassette anni l’hanno dovuto mettere dentro la vasca, tutto vestito, con l’acqua gelata, perché era completamente andato, strafatto, ubriaco perso. Faccio fatica a immaginarlo a diciassette anni. E ubriaco. E perso. Chissà se aveva la stessa massa di capelli mori. Finito il dolce mi prende per mano. È ora di andare a nanna, dice. Non sono così stanca stasera, penso. Cammina davanti e mi guida. Apre la porta e appoggia le chiavi sul comodino. Resta di spalle, un momento, appena il tempo che io mi levi la giacca. Posso restare qua con te stanotte? mi chiede. Sì, certo, dico, e vado in bagno. Meglio darsi una lavata. Doccia veloce, denti. Che faccio? Vado nuda? No, mi tengo mutande e reggiseno, e dopo mi metto la maglietta che mi sono portata. Ritorno e lui è steso sul letto che scorre il cellulare. Si è tolto la giacca, è scalzo. Mi guarda. Va in bagno. Ha recuperato una valigetta, una 24 ore di pelle figa. Se l’era portata, ci ha pensato di restare. Mi tolgo il reggiseno e mi metto la maglietta. Mi infilo nel letto. È carino, è gentile. Ha belle mani, begli occhi. Il suo telefono vibra; notifiche, notifiche, notifiche. Torna, ed è ancora vestito. La camicia è slacciata, ma indossa ancora i pantaloni. Il tuo telefono vibra in continuazione, gli dico. Sì. Adesso lo silenzio. Si stende sopra al lenzuolo; non si mette sotto, e si gira verso di me. Voglio guardarti, mi dice. Tu dormi. Sbarro gli occhi. Ma… mi fa strano, dico. Tu dormi. Io ti guardo. Ma così non mi viene, con te che stai lì e mi guardi. Sorride. Non ti piaccio? gli chiedo. Sorride e scuote la testa. Oh, ma cosa credi? Che sono una ragazzina? Sì, lo sei, mi dice. Dormi. No, non dormo no. Sst, dormi, vieni qua. E mi prende fra le braccia. Mi appoggio sul suo petto e lui mi carezza la testa, mi pettina i capelli. Dormi, dice.

Di quanto spazio disponiamo tra l’idea di come saremo e il presente che avanza? penso. Quanto spazio di manovra?

Ma perché? Papà… 

Albagia. Alba. Albeggiamento, sonno che si fa verso l’alba, e fantasticheria, idea fissa.

Deve essersi alzato durante la notte perché adesso è in canottiera. Non è che lo sveglio tirando lo sciacquone? Beh, non posso mica non tirarlo. Torno. Sembra che stia ancora dormendo; mi metto sotto, vicino. Ha delle belle braccia, è gentile, carino. Ha delle belle mani, begli occhi, chiari. Mi guardano adesso. Non dormi più? mi chiede. No. Mi tocca i capelli, ancora. Ti piacciono i miei capelli. Sì, dice. Non lo fa. Lo faccio io. Lo bacio. E non sento mica niente. No, no. Non mi da nemmeno fastidio che è tutto bocca e mi sta divorando. Mi mangia ed è disperso adesso. È una figata, non sento niente. Ma lui sì. Mi avvicino, entro nel suo abbraccio e mi stringo. Non sento niente. È una figata. Gli metto una gamba sopra, mi appiccico al suo cazzo indurito e non sento niente, è una figata. Mi prende il culo fra le mani e mi tira verso di lui e poi all’improvviso si stacca. Si allontana. Dove va? Dove vai? gli chiedo, e lo bacio. Aspetta, mi dice. Mi spinge indietro la spalla, piano, e mi mette supina; mi passa una mano sulla faccia, come un velo, e mi abbassa le palpebre. Mi ricorda quella storia delle monete sugli occhi dei morti, quelle per Caronte, per pagarsi il viaggio attraverso lo Stige. È sempre una questione di soldi. Anche per morire. E me le aspetto quelle due monete, fresche, sulle palpebre chiuse, che danno sollievo. Invece arriva la sua voce all’orecchio che dice: sst, dice. Mi alza la maglia, piano, e mi bacia le tette, piano. É carino, è gentile. Non sento niente. Una figata. Mi bacia la pancia, la carezza, mi toglie le mutande e mi bacia la fica. E mi sono bagnata, e non capisco perché mi sono bagnata, non sentivo niente. Mi apre piano le gambe e mi tocca. È gentile, è carino, ha delle belle mani, begli occhi. E non sento niente. Lo guardo. È paziente, non fa la faccia di uno che si rompe ad aspettare tu venga. Non ha mica fretta, anzi. La tira per le lunghe. Quasi mi fa incazzare, perché adesso sento tutto, e mi fa… il contrario di svaporare, delineare. Ma cosa vuoi? Dov’è che mi porti? Dove mi fai apparire? «Ti prego», gli dico. Mi è uscito così, un po’ melodrammatico; mi ascoltavo mentre lo dicevo e l’ho trovato eccitante, e infatti si è eccitato anche lui, ancora di più. E adesso mi studia, fisso, come se fossi un reperto trafugato, una confessione. E anche mentre vengo, mi fissa, curioso di sapere; è mille domande negli occhi e pare che il mio corpo che si inarca e si contrae sia la risposta a tutto. E adesso? mi chiedo. Adesso vorrà scopare. Ci sta, mi dico. E invece si alza. Si alza e va in bagno. Ma che cazzo. Strano. Vabbè. Ho sete.

Vado a prendere una bottiglietta di qualcosa al gusto di limone al frigobar. Tanto paga lui, paga tutto. Che sollievo. Non so se posso farne a meno; questa assenza di calcolo, questo lasciarsi andare. Allungare una mano e prendere. Senza retropensieri. Sono seduta sul divanetto di velluto azzurro e bevo a canna. E lo vedo. Sbuca dalla sua 24 ore di pelle figa. Lo prendo. Gli stessi arabeschi sulla copertina, le stesse pagine gialle. Lui torna dal bagno e mi guarda. E anche io lo guardo.

Perché hai il mio diario con Giulia?

Perché sono suo padre.

Ecco. Occhi chiari, belli, ciglia lunghe. Capelli mori. E gli piace ascoltarmi. Ecco. Mi alzo e cerco i miei vestiti, ma non riesco ad afferrarli, ho le mani vuote. E lui mi prende e mi abbraccia. Scusa, dovevo dirtelo. Sì, gli dico, e provo ad andare, vorrei proprio andare, ma rimango fra le sue braccia. Forse era meglio se me lo dicevi, sussurro, e resto persa, nella sua stretta che mi tiene in piedi. O forse è lui che è perso. Perché mi hai cercata? Volevo… non lo so più cosa volevo, dice. E adesso… cosa vuoi da me adesso? Tutto, mi dice. Voglio tutto. Vorrebbe baciarmi, vorrei baciarlo, ma ci sono quegli occhi chiari. E c’è che si vuole prendere tutto. Questo lo tengo, gli dico, stringendo il diario. Portami via, portami a casa adesso. Voglio andare via, per favore. 

È mattina presto, non c’è quasi nessuno per strada. Mi lascia all’angolo più lontano. Senti, mi dice… Ciao, gli dico. 

Cate mi chiede, ma io non riesco a raccontare niente. Mi andava bene fare sesso. Con lui, anche bene. È gentile, è carino. Ha begli occhi, belle mani. Ma… mi ha fatto sentire piccola, ecco. Non riesco a eccitarmi se mi fai sentire piccola, non riesco a venire. Ecco, è quello il problema. È solo quello. 

E c’è che si vuole prendere tutto.

C’era papà. C’era Giulia, i suoi occhi. C’erano anche loro in quella stanza. E i 50 euro. Non mi andava che sapesse. Non mi andava che trovasse il mio cuore e se lo portasse in giro in una 24 ore di pelle figa. 

E tutto, si sta prendendo tutto.

Non ha chiamato, non ha messaggiato. Meglio. Ho il compito di greco. Devo rialzare la media. Ce la posso fare. Mi faccio anche interrogare la settimana prossima. Ho bisogno d’aria. Fa caldo. Vado al parco. Vado a studiare là. Cate non viene. Mi dice: ma perché non vieni da me? Io ce l’ho l’aria condizionata. No, voglio l’aria fuori, lontana, l’aria via. È bello questo giardino, trovi sempre un angolo dove metterti e nessuno ti rompe. Meglio se non chiama, molto meglio. E comunque, se proprio vuole, è lui che mi cerca. Se pensa che gli sbavo addosso per i suoi soldi, per le sue mani, per come dice sst… 

Perché sono i dettagli che ti fregano, io credevo fosse l’insieme, ma sono i dettagli. Guardi tutto e non vedi niente.

Allora, Ifigenia in Aulide. Ma perché Clitennestra non se la porta via, la prende e se la porta via? Eh, ma la capisco: levaglielo tu, a quelli, quel giochino del comando. E Aristotele. Dice che il mutamento repentino d’Ifigenia non è coerente; non è credibile che non abbia più paura, che si convinca da sola a immolarsi. Non so… Perché? Una non può cambiare idea? Non può decidere scientemente di trasformarsi da vittima a protagonista della sua stessa sfiga?

Ciao. Ed eccolo lì, dietro alla mia panchina. Eccolo lì. Giacca e cravatta. Non grasso, non brutto. Ciao, dice. Scusa se ti ho fatto aspettare.